giovedì 2 maggio 2013

Edouard Manet. La pittura che parla il gergo della modernità


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di Michele Lasala

La storia dell’arte, al pari della storia del pensiero, rivela nella sua sostanza più profonda una trama costituita da una serie infinita di ramificazioni, da strade innumerevoli che di volta in volta si intersecano fra loro, dando vita ad incroci non di rado imprevedibili, sorprendenti, inaspettati. C’è uno strano e curioso legame che unisce, per esempio, indirettamente il Rinascimento italiano e Picasso, uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, vuoi per intelligenza, vuoi per creatività. E questa linea corre lungo l’intera produzione pittorica di Edouard Manet, il pittore francese dell’Ottocento con cui tradizionalmente si fa cominciare quella che viene chiamata ‘arte moderna’.
VERSO TERRE LONTANE – Nato in una famiglia della buona borghesia parigina nel 1832, il giovanissimo Edouard Manet segue dapprima studi classici, ma ben presto abbandonerà gli studi, scegliendo la carriera di ufficiale di marina. Comincia così a viaggiare in lungo e in largo  e con una nave mercantile si sposta addirittura fino a Rio de Janeiro.  Tra il 1850 e il 1856 avviene la sua formazione artistica a contatto diretto con l’ambiente dell’accademico Couture. Ma sarà la grande tradizione della pittura italiana del Rinascimento ad infuocare in lui l’entusiasmo per l’arte e per la bellezza. Guarda con attenzione in particolar modo la pittura veneziana del Quattrocento e del Cinquecento, e rimane affascinato dalle opere evidentemente sensuali di Tiziano, dalle opere quasi “cinematografiche” di Tintoretto, dalla pittura di chiara vocazione teatrale di Veronese, dalle donne calde e suadenti di Giorgione. Allo stesso tempo, però, Manet guarda agli spagnoli, rimanendo particolarmente colpito dalla grandezza e dalla genialità di Diego Velázquez e dalla potenza della pittura di Francisco Goya.
IL RINASCIMENTO, FONTE DI ISPIRAZIONE – La sensualità e il colorismo della pittura veneta, la fluidità della pennellata di chiara ascendenza spagnola sono alcuni degli elementi che ritroviamo infatti nell’opera più matura di Manet, quali segni di inequivocabile legame con la tradizione pittorica cinquecentesca e seicentesca, fonte inesauribile di ispirazione anche in un periodo storico delicato e caratterizzato da profonde trasformazioni sociali come quello segnato dalla rivoluzione industriale, periodo in cui il pittore francese dipinge i suoi più importanti capolavori, come l’Olympia e la  Le déjeuner sur l’herbe, entrambe opere del 1863 ed entrambe conservate oggi al Musée d’Orsay di Parigi.
BELLEZZA E SENSUALITA’ – L’Olympia è forse l’opera di Manet che meglio spiega il profondo e intenso legame che il pittore francese ha instaurato con la pittura veneziana del secolo XVI, dal momento che il modello di riferimento da cui scaturisce quest’opera è indubbiamente la Venere di Urbino di Tiziano, opera dipinta nel 1538, stando almeno alle più recenti datazioni. Se la donna di Tiziano è appunto una Venere, e quindi l’incarnazione della bellezza e della sensualità, la prova lampante e incontrovertibile dell’idea diventata carne; la donna dipinta da Manet è invece una puttana, una donna che vende il suo corpo per professione e per passione. Nulla di ideale, nelle donne di Manet, nulla di così astratto. Tutto parla la lingua della vita quotidiana, il gergo della modernità. L’Olympia aspetta il suo cliente su candide lenzuola, appoggiata a morbidi cuscini, completamente nuda. Alle sue spalle una donna negra le offre un mazzo di fiori, evidentemente un omaggio floreale da parte di un amante lontano, dimenticato, oramai senza più volto e senza più nome. Ai suoi piedi un gatto nero, animale che allude al mistero e alla sensualità. L’animale che forse più si avvicina al temperamento femminile. Ma sia la fantesca africana sia il misterioso felino hanno la funzione di esaltare ed evidenziare il biancore della carne dell’elegante meretrice che nel frattempo guarda noi come a invitarci a trascorrere momenti di puro piacere con lei, col suo corpo, con la sua sensualità.
LA PITTURA DELLA QUOTIDIANITA’ – La pittura di Manet racconta la vita che si consuma quotidianamente tra i salotti e i boulevard parigini di fine Ottocento. La vita di borghesi che amano le corse dei cavalli o stare al balcone e godersi magari una sfilata in un placido pomeriggio domenicale. Ma allo stesso tempo racconta la vita di uomini soli, abbandonati, nostalgici. Di uomini che hanno perduto l’entusiasmo di vivere e il senso dell’esistenza. Le immagini che Manet ci offre con i suoi quadri sono immagini che sembrano uscire dalle pagine dei romanzi di Zola o di Guy de Maupassant, dove ad essere narrato molto spesso è l’aspetto più torbido dell’anima umana, i cui frutti prendono il nome normalmente di ipocrisia, solitudine e malata borghesia.
LE IDENTITA’ PERDUTE – Un quadro come La prune (1877 / 78) ci fa vedere una donna dallo sguardo vuoto, assente mentre è al tavolo di un bar davanti a un bicchiere che contiene una prugna. È l’immagine della vuotezza della esistenza, della malinconia, della sofferenza interiore, della perdita del proprio io, della perdita della propria identità. È questo probabilmente il quadro che meglio rimanda al periodo rosa di Picasso, dove saltimbanchi, equilibristi, clown rivelano il loro vero volto senza la maschera del ridicolo, che è quello di uomini profondamente tristi, perché pieni di solitudine, perché pieni di incurabile inquietudine. Di uomini che hanno deciso di stare al di là del bene e del male.
LA MOSTRA – E’ aperta al palazzo Ducale di Venezia dal 24 aprile al 18 agosto la mostra intitolata Manet. Ritorno a Venezia, a cura della Fondazione Musei Civici. Una grande esposizione che fa luce su quelli che sono stati i rapporti tra il pittore francese e la pittura veneta del Cinquecento. Per la prima volta l’Olympia di Manet è esposta a fianco della Venere di Urbino di Tiziano.

(Articolo pubblicato su www.quotidianolive.com in data 30 aprile 2013)

Edouard Manet, Olympia (1863), Parigi, Musée d’Orsay

    Edouard Manet, Olympia (1863), Parigi, Musée d’Orsay

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