mercoledì 25 settembre 2013

Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà

Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà
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Michele Lasala

Mi sono sempre chiesto come mai un pittore come Van Gogh piaccia così tanto alla gente, sia così tanto amato e addirittura, da taluni, assai venerato. Mi sono sempre domandato come mai un uomo così poco dotato tecnicamente – pur essendo un talentoso disegnatore e un visionario poeta del colore – sia potuto diventare un punto di riferimento imprescindibile nell’arte moderna e contemporanea. In realtà una risposta c’è. Van Gogh è artefice di una cattiva e malata pittura, ha dipinto quadri di una estrema e alle volte insopportabile sofferenza, ha avuto con la pittura un rapporto, si può dire, conflittuale. È il primo artista ad aver inteso l’arte non già come piacere, ma come dolore.  Non già come interpretazione della realtà, ma come espressione delle proprie ansie e delle proprie sofferenze. Van Gogh è stato il primo artista a spalancare le porte a una estetica nuova: quella del cattivo gusto; quella estetica, cioè, che tende a legittimare ogni forma di mediocrità, ogni forma di individualismo, in quanto manifestazione chiara ed evidente di una civiltà oramai in preda al declino: la civiltà moderna. L’uomo della modernità è l’uomo che non crede in nessun valore, in nessuna morale, in nessuna religione. È l’uomo che proietta sul mondo la propria verità, in forma d’opinione.
VAN GOGH E LEOPARDI - Van Gogh, infatti, ha raccontato non già la realtà esteriore, fenomenica, oggettiva, storica; egli piuttosto è stato lo scriba della propria interiorità: ha dipinto la realtà segreta, nascosta e autentica del proprio io alienato, denunciando così al mondo i mali causati proprio dalla moderna società borghese e industriale, sempre più dominata dal potere della macchina e della tecnica e sempre meno attenta ai problemi che affliggono l’individuo nella sua singolare sfera esistenziale. L’unica verità, in un mondo oramai senza più nessun valore, senza più Dio, senza più morale, è proprio quella individuale, ottenebrata e offuscata dall’indifferenza capitalista. Da qui il dramma della incomunicabilità tra il Sé e l’Altro da sè, da qui la sofferenza dovuta alla mancanza di risposte alle proprie esigenze. Da qui lo smarrimento della propria identità. Van Gogh è tutto questo, perché è il prodotto di questa cultura decadente. Ecco perché piace, attrae, cattura l’attenzione: è vicino al nostro stesso modo di intendere la realtà. Piace anche perché ha saputo, come Leopardi, parlare di ogni uomo pur parlando unicamente di sé. La sua sofferenza è quella che può provare ogni singolo uomo, ma Van Gogh è stato in grado di dare ad essa forma ed espressione, voce e colore. In questo consiste la sua genialità.
GENIO E FOLLIA – In una bella pagina di una monografia dedicata al pittore, lo storico dell’arte francese Louis Hautecœur scrive: «Van Gogh non ha cessato di voler essere e di essere se stesso. Naturalismo e romanticismo erano nel fondo del suo temperamento, ed egli, essere ipersensibile, ne esagerò gli aspetti: accentuò il carattere, insistette sulle forme, esaltò i colori, semplificando, riassumendo […] Vincent si è sforzato di rendere in tutta la sua forza la sensazione ch’ègli prova; e poiché la sensazione dipende dal nostro stato fisico, dagli umori del momento, la pittura non rappresenta più esclusivamente il carattere del modello, ma esprime altresì il carattere dell’autore». E questa pittura che si carica degli umori dell’autore, che appunto esprime il carattere del pittore, si spiega anche attraverso i numerosi autoritratti realizzati da Van Gogh stesso, che, almeno in questo è simile ad un altro pittore olandese: Rembrandt, talmente ossessionato dal suo stesso volto da riprodurlo innumerevoli volte, in innumerevoli modi differenti, nella affannosa analisi della propria identità. Ma in Van Gogh l’autoritratto porta con sé il peso e il carico di una angoscia incurabile. Di un male interiore le cui radici affondano nella esistenza stessa dell’individuo e la cui eziologia non offre nessuna possibile terapia, dal momento che non se ne conoscono le cause, salvo che quelle legate alla crisi della società di fine Ottocento, di cui si è detto. L’angoscia, infatti, è uno stato emotivo molto più radicale e più radicato: ha a che fare proprio con l’esistenza dell’uomo nel suo naturale rapporto con le cose e col mondo. Van Gogh ha espresso il suo malessere senza retorica e senza reticenze: ha parlato di sé, mettendo a nudo la sua incurabile malattia, e mostrandosi al mondo nella sua autenticità, simbolo e incarnazione di genio e follia.
L’OSSESSIONE DELLA PITTURA – È proprio la follia (e la angoscia che essa implica) la vera fonte da cui sgorga la sua pittura. In una lettera del settembre 1889 inviata al fratello Theo da Saint-Rémy-de-Provence, quando era ancora ricoverato nel manicomio Saint-Paul-de-Mausole, Vincent scrive: «Fratello mio caro — è sempre in un intervallo di lavoro che ti scrivo —, fatico come un vero ossesso, provo più che mai un furore sordo di lavoro, e credo che questo contribuirà a guarirmi. Forse mi succederà una cosa come quella di cui parla Delacroix: “Ho trovato la pittura quando non avevo più né denti né fiato”, nel senso che la mia triste malattia mi fa lavorare con un furore sordo, molto lentamente, ma dal mattino alla sera senza interruzione; ed è questo, probabilmente, il segreto: lavorare a lungo e lentamente. Che ne so, ma credo di avere in corso un paio di tele non troppo male, prima di tutto il falciatore tra le spighe gialle e il ritratto su fondo chiaro: saranno per la mostra dei Vingtistes, se però si ricorderanno di me al momento buono; ma mi sarebbe assolutamente uguale, se non preferibile, che mi dimenticassero». In questo stesso anno, nonostante la malattia, Van Gogh dipinge tantissimo, e realizza quadri come Lillà (San Pietroburgo, The State Ermitage Museum), Il giardino di Saint-Paul (in collezione privata), Iris (Los Angeles, The J. Paul Getty Museum), Notte stellata (New York, The Museum of Modern Art), Autoritratto (Parigi, Musée d’Orsay), Autoritratto con l’orecchio bendato (Londra, Courtrauld Institute Gallerey).
L’ANGOSCIA NELLA NOTTE – Notte stellata è probabilmente il dipinto più noto del pittore. È, questa, la prima veduta notturna della storia della pittura eseguita en plein air, cioè dipinta all’aria aperta, stando proprio sul luogo della rappresentazione. Per realizzarla, pare che Van Gogh avesse fissato sul suo cappello delle candele accese, per farsi luce mentre, nel buio della notte, andava stendendo i colori sulla tela. Tutta l’angoscia dell’artista, in questo quadro, si riflette in ogni centimetro quadro di pittura: non c’è pennellata, non c’è tratto che non abbia la stessa consistenza della carne viva. È un quadro fatto di vibrazioni, di moti dell’animo, di energia spirituale. Di tutta quella energia che si sprigionerebbe urlando al mondo la propria angoscia e la propria sofferenza. Ed ecco allora come tutto, nel quadro, sembra muoversi vorticosamente, come tutto sembra così irreale, così inquietante, così vivo. In realtà Van Gogh, qui, non ha dipinto nessuna notte stellata, ma ha dipinto un ennesimo autoritratto. Quel cielo così ondoso, quelle stelle così raggianti che paiono girare velocemente su se stesse, quel cipresso così fortemente somigliante ad una fiamma ardente, quelle montagne in lontananza che diventano un mare in tempesta e quelle case, poi, che si confondono via via tra di loro in un intrico di forme quasi cubiste sono il ritratto più autentico dell’artista: parlano di lui. Ecco perché tutti i quadri di Van Gogh si assomigliano: ritraggono tutti il suo volto. Sono tutti autoritratti.
VAN GOGH E MUNCH – In Notte stellata il mondo si deforma perché è così che Van Gogh vede la realtà: la vede con gli occhi della malattia, con gli occhi del turbamento. Ma si capisce che questo turbamento è inesploso, è ancora contenuto, non è urlato. È qui che Van Gogh fallisce, dal momento che non è in grado di svuotarsi del suo male. Quello che lui non è riuscito a fare, lo farà poco dopo Edvard Munch con L’urlo (Oslo, Nasjonalgaleriet), quadro dipinto nel 1893, esattamente quattro anni dopo la Notte stellata. Nel quadro di Munch vediamo in primo piano una figura umana che urla al mondo tutta la sua angoscia, scuotendo la realtà circostante che comincia così a muoversi, a deformarsi, a sciogliersi, a liquefarsi. Nei quadri di Van Gogh, al contrario, la sofferenza non viene mai urlata, mai detta esplicitamente. Essa piuttosto affiora nel silenzio di un luminoso vaso con girasoli, nella inquietudine di un campo di grano con corvi, o nella solitudine di innocui salici al tramonto.
LA MOSTRA – E’ aperta al Van Gogh Museum di Amsterdam fino al 12 gennaio 2014 la mostra Van Gogh at work. L’esposizione inaugura la rinnovata sede del museo con oltre duecento lavori di Van Gogh e di altri artisti suoi contemporanei.

[articolo pubblicato su www.sportcafe24.com il 16 settembre 2013]

venerdì 30 agosto 2013

Jan Vermeer, la musica dell’anima nella pittura del silenzio

Jan Vermeer, la musica dell’anima nella pittura del silenzio
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Michele Lasala

Il primo ad aver intuito la originalità e la particolarità della pittura di Jan Vermeer (Delft, 1632 – ivi, 1675) dopo un oblio durato circa due secoli e mezzo dalla morte del pittore, fu lo storico olandese Johan Huizinga, che, in una sua opera del 1932, Hollandische Kultur des siebenzehnten Jahrhunderts, afferma: «Con Hals è possibile cavarsela usando il termine “realismo”, ma la sua insensatezza risalta quando da Hals si passa a Vermeer […]. Vermeer non ha dipinto apparentemente che l’aspetto esteriore della vita quotidiana […]. In tutto ciò che dipinge Vermeer, aleggia a un tempo un’atmosfera di ricordi d’infanzia, una calma di sogno, un’immobilità completa e una chiarezza elegiaca, che è troppo fine per essere chiamata malinconia. Realismo? Vermeer ci porta lontano dalla grossolana e nuda realtà quotidiana».
UNA PITTURA DI SOGNO – Il realismo di Franz Hals, altro interessante pittore del Seicento olandese e che Huizinga qui mette a confronto col maestro di Delft, è come se lentamente si dissolvesse nel pulviscolo cristallino della chiara luce che sovrana regna nelle opere di Vermeer, trasfigurandosi via via in una dimensione completamente altra, assoluta, fuori dal tempo: quella del sogno. La pittura di Vermeer ci porta veramente lontano dalla nuda realtà del quotidiano, proiettandoci negli abissi più profondi della autenticità e dell’anima degli uomini. Un’anima che comunica non già con la parola, ma col silenzio della solitudine.
CALMA, SILENZIO E INTIMITA’ – Ed ecco La merlettaia (1669), una giovane ragazza intenta a ricamare al tavolo di lavoro; alle sue spalle una parete nuda e disadorna che lascia indovinare una stanza altrettanto semplice simile a quella di una novizia in un monastero. L’atmosfera di estrema sacralità che in questo quadro si avverte, è suggerita anche dal libro chiuso che la giovane tiene accanto a sé, probabilmente un libro d’ore o la Bibbia. Ed ecco ancora la Donna in azzurro che legge una lettera (1663 ca.), opera oggi conservata al Rijksmuseum di Amsterdam, in cui si vede una ragazza, forse incinta, assorta nella lettura di una lettera nella calma e nel silenzio della sua stanza.  Davanti a sè si intuisce una finestra da cui filtra una luce diafana che svela al mondo l’intimità domestica di questa giovane amante. La lettera che sta leggendo potrebbe essere quella del suo amato, che le scrive da terre lontane. Ed ecco L’Astronomo (1668), opera conservata al Louvre e una delle opere più note di Vermeer. Lo scienziato è all’interno del suo studio, al tavolo di lavoro e circondato dagli strumenti di cui si serve: libri, un compasso, un astrolabio, un grafico. L’astronomo si alza leggermente dalla sedia e con la mano destra gira la sfera celeste alla ricerca evidentemente d’una costellazione, di un astro, di un mondo inesplorato.
LA MUSICA, VOCE DELL’ANIMA – Nelle opere di Vermeer, alle volte il silenzio della intimità può essere sublimato da qualche nota, dal suono dolce di un violino, da quello di una spinetta, da quello delicato di un liuto, come dimostrano dipinti quali Gentiluomo e dama alla spinetta (1662), Suonatrice di liuto(1664), Concerto a tre (1665), Fanciulla con flauto (1665-1670), Suonatrice di chitarra (1672). Tutte opere in cui la musica non spezza l’incanto della solitudine: essa piuttosto ci fa sentire, dei protagonisti, la voce dell’anima, la melodia dei sentimenti; ci fa udire il suono delle loro speranze e della loro semplice esistenza. È un mezzo che dà espressione al volto nascosto e segreto dell’interiorità.
LA METAFISICA DI VERMEER – La pittura raffinata e analitica di Jan Vermeer, in sostanza, a differenza di quella degli altri pittori suoi contemporanei, come quella di Pieter de Hooch, Frans van Miers, Gabriel Metsu, Gerard  ter Borch – pittori che pure avevano dipinto soggetti simili a quelli di Vermeer (nell’Olanda del Seicento erano molto richiesti quadri di genere, raffiguranti suonatori, concerti, osterie, donne intente nel loro lavoro) –  non è affatto una pittura della realtà, del quotidiano, ma è piuttosto una pittura del sogno, della sospensione temporale: è una pittura, appunto, dell’interiorità. Si può dire che essa sia una pittura “metafisica”. Prima ancora della esperienza artistica di Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi e Carlo Carrà.
IL DUBBIO DELLA REALTA’ – Vermeer, come scrive giustamente Lorenza Trucchi (Vermeer e l’arbitrio del colore, 1966), «non badava tanto a descrivere il reale quanto a fissarlo nella sua essenza pittorica. Il “rumore barocco” con le pompe trionfanti e le prime inquiete tentazioni, non arriva all’orecchio dell’assorto pittore di Delft; egli pare vivere in una religiosa atmosfera ancora castamente medioevale e, tuttavia, su questa assorta quiete aleggia il misetero: il silenzioso mistero della morte. Tutta l’arte di Vermeer altro non è che questo bloccare l’attimo, questo fare di ogni cosa, anche la più sanamente concreta e banalmente viva, di ogni precario e mutevole spettacolo quotidiano. […] Vermeer non è dunque un classico, è, anzi, uno dei pittori più moderni del Seicento, proprio per quel suo mistero, per quel sottile dubbio sulla realtà, occultato sotto una assoluta assenza di enfasi, sotto una ossessiva precisione di dettagli oggettivi».
LA MOSTRA – È aperta a Londra, alla National Gallery, fino all’8 settembre, la mostra Vermeer and Music. The art of love and leisure. Un’esposizione che mette a confronto l’opera di Vermeer con quella di alcuni pittori suoi contemporanei e con alcuni esempi di strumenti del tempo. In mostra quattro dipinti del maestro di Delft: Donna in piedi al virginaleDonna seduta al virginale, la Suonatrice di chitarra, laLezione di musica. Tra gli artisti presenti in mostra: Gerrit Dou, Jan Miense Molenaer, Godtfried Shalcken, Pieter de Hooch, Gabriel Metsu, Gerard ter Borch.
Jan Vermeer, "Suonatrice di chitarra" (1672, ca.), Londra, Kenwood, Iveagh Bequest.
Jan Vermeer, “Suonatrice di chitarra” (1672, ca.), Londra, Kenwood, Iveagh Bequest.

La metafisica di De Chirico. Il mistero e l’inquietudine nella pittura dell’enigma


La metafisica di De Chirico. Il mistero e l’inquietudine nella pittura dell’enigma
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di Michele Lasala
L’elemento dominante nelle opere metafisiche di Giorgio De Chirico è con ogni evidenza il mistero, e questo perché in esse la realtà si trasfigura emblematicamente nel suo opposto, lasciando l’uomo in uno stato di dubbio e di sospensione. Gli oggetti di sempre, gli oggetti della quotidianità perdono improvvisamente ogni loro valenza; e conseguentemente la perdita di senso del mondo lascia il posto all’oscuro abisso dell’inquietudine. Le cose rappresentate nei quadri di De Chirico non hanno infatti nessun significato, non esistono per dire qualcosa, non comunicano nulla al di là della loro angosciante insensatezza. Ed è proprio questa, l’insensatezza, la chiave ermeneutica per poter meglio comprendere tutta la ricerca metafisica dechirichiana, un elemento che affonda evidentemente le sue radici nella filosofia umana, troppo umana di Friedrich Nietzsche, lo “scriba del caos”. De Chirico ad un certo punto confesserà: «Fu in quell’occasione che, durante un viaggio che feci a Roma in ottobre, dopo aver letto le opere di Nietzsche, mi accorsi che c’è una quantità di cose strane, sconosciute, solitarie, che possono essere tradotte in pittura. Riflettei a lungo. Così ho cominciato ad avere le prime rivelazioni. Disegnavo meno, avevo anzi un po’ dimenticato, ma ogni volta che lo facevo mi sentivo spinto da una necessità. Capii allora certe sensazioni vaghe che prima non mi spiegavo. Il linguaggio che a volte le cose hanno in questo mondo; le stagioni dell’anno e le ore del giorno. Le epoche della storia, anche quelle. – La preistoria, le rivoluzioni del pensiero attraverso i secoli, le epoche classiche, il medioevo, i tempi moderni, tutto mi appariva più strano e più lontano. Non c’erano più soggetti nella mia immaginazione, le mie composizioni non avevano alcun senso e soprattutto alcun senso comune, sono calme». E poi, come fosse veramente un filosofo contemporaneo sulla scia del pensiero nichilista, scrive: «Ci vuole soprattutto una grande sensibilità. Rappresentarsi tutte le cose del mondo come enigmi, non soltanto le grandi domande che ci si è sempre posti – perché il mondo è stato creato, perché nasciamo, viviamo e moriamo – in quanto forse come ho già detto in tutto questo non c’è alcuna ragione».
LA GRANDE RIVELAZIONE – De Chirico scrive queste righe nel 1913, quando è ancora a Parigi, e racconta del suo viaggio romano compiuto nel 1906, lo stesso anno in cui lascia la patria, la Grecia, e arriva in Italia, dove visiterà inoltre Milano e poi Venezia. Ma è Roma la città della grande “rivelazione”, la città in cui il pittore avverte quella strana ed enigmatica atmosfera che modificherà enormemente il suo stato d’animo rispetto alla realtà, a tal punto che egli chiamerà questa singolare esperienza col termine tedesco Stimmung, direttamente preso in prestito dal lessico romantico. E come per un poeta o filosofo romantico, Roma è per Giorgio De Chirico la città del sogno, la città in cui tutto appare sotto una luce diversa, rivelatrice, surreale. Per De Chirico la realtà deve essere guardata con occhi diversi, deve essere percepita con una sensibilità nuova. Non c’è nulla da comprendere, capire, per De Chirico. Tutto rappresenta un enigma, una domanda; e l’uomo, in questa nuova dimensione, si accorge tragicamente di esser sospeso nel vuoto di una realtà priva di fondamento. Lo sgretolamento dell’essere lascia spazio al volto amorfo e inespressivo del nulla, che riflette le sembianze del volto inquieto dell’uomo contemporaneo. È il velo di Maya che è stato finalmente strappato dagli occhi dell’uomo illuso.
L’ENIGMA DEL TEMPO – È proprio a Roma che Giorgio De Chirico concepisce la pittura metafisica, non intendendola ancora però come avanguardia, come movimento artistico, ma come tentativo del tutto individuale di rappresentare le cose in modo diverso, nuovo. Subito dopo infatti, nel 1910, comincia a dipingere i primi quadri metafisici. A questo stesso anno risale un quadro come L’énigme de l’heure (L’enigma dell’ora), opera oggi conservata a Milano nella Collezione Mattioli. Qui tutto è fermo, persino le lancette dell’orologio che segnano le 14:54 sembrano essersi fermate. A rendere più inquietante l’atmosfera di fissità e di attesa sono anche le lunghe ombre che si addensano sulla piazza antistante l’edificio porticato, probabilmente una stazione ferroviaria. La presenza dell’uomo vestito di bianco inoltre davanti all’imponente edificio rafforza ancora di più il senso di mistero che permea tutta la scena: l’uomo è come se fosse in attesa di qualcosa che mai accadrà, perché il tempo pare essersi emblematicamente fossilizzato, bloccandosi per sempre in quell’ora, in quel minuto. Un attimo divenuto eternità. Due anni più tardi De Chirico dipinge La nostalgia dell’infinito (New York, The Museum of Modern Art): è il quadro che inaugura la serie delle “torri”. Una grande torre bianca piramidale infatti campeggia in quest’opera, sovrastando con la sua imponenza le due figure umane che passeggiano ai suoi piedi. È una cattedrale moderna, senza più spirito, senza più Dio, ma comunque capace di ridestare nell’uomo il senso dell’infinito in virtù della sua forma che si eleva potentemente verso il cielo, come a suggerire una dimensione altra rispetto a quella finita e mondana.
LA METAFISICA – Nel 1915 l’Italia entra in guerra e De Chirico è chiamato alle armi; verrà destinato a Ferrara, dove incontrerà Filippo de Pisis e Corrado Govoni. L’anno dopo però si fa ricoverare all’ospedale militare della città estense “Villa del Seminario”, e in questa circostanza avviene l’incontro con Carlo Carrà. Nasce ufficialmente la Metafisica. Il manifesto pittorico di questa nuova avanguardia italiana, una delle più importanti del secolo XX, è Le Muse inquietanti (Milano, Collezione Mattioli). Sullo sfondo è riconoscibile il castello di Ferrara, in primo piano invece due misteriose figure, a metà strada tra i manichini di una sartoria e le statue di un edificio classico greco. Ai loro piedi sono disposti degli oggetti che rimandano ai giochi dell’infanzia, di quell’età che perdura solo nella nostra memoria e che disturba tacitamente la nostra coscienza, angosciando il nostro io.
UNA PITTURA INTERIORE E CEREBRALE – Le muse di De Chirico inquietano perché non ispirano più nulla, né arte, né musica, né poesia. Sono mute nella loro insensatezza. Come muto e insensato è il mondo che le circonda. Le risposte alla nostra esistenza le dobbiamo cercare allora solo dentro di noi, nel sottosuolo della nostra coscienza, nella nostra memoria, nella nostra interiorità. E’solo da qui che può nascere una nuova poesia, una nuova arte, e un rinnovato senso della realtà;  non più guardando fuori e al di là degli orizzonti del nostro io. E la pittura diventa così “intérieure” e “cérébrale”, così come ebbe a scrivere lucidamente in riferimento proprio alla pittura metafisica ed enigmatica di De Chirico, il poeta francese Guillaume Apollinaire. Interiore e cerebrale è la pittura metafisica, e non narrativa. De Chirico in effetti in tutta la stagione metafisica non ha raccontato nulla, non ha detto nulla. Non ha narrato storie, non ha descritto ambienti o situazioni, non ha rappresentato scene di vita quotidiana. Ha solo lasciato che il mondo si mostrasse per quello che è: un mistero tra l’essere e il nulla.
LE MOSTRE – Giorgio De Chirico e il ritratto, Montepulciano (Siena), Fortezza poliziana, dall’ 8 giogno al 30 settembre; Giorgio de Chirico. Mistero e poesia, Otranto (Lecce), Castello aragonese, dall’ 8 giugno al 29 settembre.
Giorgio De Chirico, "Le Muse inquietanti", 1916, Milano, Collezione Mattioli
Giorgio De Chirico, “Le Muse inquietanti”, 1916, Milano, Collezione Mattioli

giovedì 15 agosto 2013


Due doverose chiarificazioni in merito al video "Bruttezze d'Italia. Grand Tour" in risposta a un commento alquanto provocatorio

Michele Lasala

1) In questo video ho incluso tra le bruttezze d'Italia non certo l’Ara Pacis, che è uno degli esempi più belli di architettura e scultura dell’arte romana, ma piuttosto la struttura architettonica che la circonda, la quale avrebbe – secondo le intenzioni dell’architetto Richard Meier – la funzione di preservare e proteggere il monumento romano da chissà quali pericoli esterni o atmosferici. La teca avrebbe dunque la funzione di sala museale. Un’idea bizzarra oltre che paradossale, se si pensa al fatto che Roma è di per sé un museo, non certo imprigionato all’interno di asettiche parteti dalle finestre di vetro, ma un museo en plein air. Secondo questa concezione, quindi, si dovrebbero realizzare tante teche quanti sono i monumenti romani. Ma si potrebbe ancora, perché no, estendere utopisticamente il modello dell’Ara Pacis a tutti i monumenti di Italia, coprendo così di cemento tutta la bellezza di cui siamo in possesso. In verità Meier ha agito – secondo il mio modesto modo di vedere – in base all’assurdo principio secondo cui l’architetto contemporaneo deve essere libero di esprimere la sua, chiamiamola così, arte, o semplicemente idea estetica, ovunque; anche in luoghi dove non c’è bisogno effettivamente di interventi architettonici aggiuntivi o integrativi. L’architetto contemporaneo, in ossequio al folle principio della modernità, avrebbe così la piena libertà di disporre anche dei luoghi storici per imporre il suo cattivo gusto estetico attraverso la realizzazione di inutili strutture, danneggiando l’estetica e l’identità dei luoghi stessi. E con esse la memoria della nostra civiltà. Purtroppo, dopo l’esperienza dell’arte Dada, e l’esaltazione del banale quale nuovo oggetto estetico o artistico che vede impegnati artisti come Marcel Duchamp, Max Ernst, Francis Picabia, Man Ray, e più tardi Piero Manzoni con il neodadaismo, nella direzione sempre più decisa di rompere col passato e con la tradizione artistica, il nostro gusto estetico si è formato sull’idea del brutto e non più del bello, a tal punto che paradossalmente nell’arte moderna e contemporanea il brutto viene considerato bello. E viceversa. Piero Manzoni con la sua “merda d’artista” non soltanto ha espresso una idea di mercificazione e di oggetto di consumo che soggiace alla concezione stessa dell’opera d’arte contemporanea, ma ha voluto soprattutto far capire come il nome dell’artista sia più importante della sua opera, a tal punto che anche una scatola di merda può diventare a tutti gli effetti un’opera d’arte, dal momento che reca la firma di “Piero Manzoni” o comunque di qualche altro artista. Ecco, questo è quello che oggi accade, il nome vale più dell’opera realizzata, e quello dell’architetto Meier è – pare di capire – un marchio di qualità. 

2) Il teatro degli Arcimboldi fu costruito tempo fa (negli anni tra il ’97 e il 2000) per sostituire il Teatro alla Scala. E questo a causa dei lavori di restyling che in quegli anni si stavano facendo all’interno del più noto teatro milanese. Col passare del tempo l’Arcimboldi ha assunto sempre più un ruolo di rilievo, tanto da essere un punto di riferimento per molti artisti e amanti della musica. Ma al di là di questo, ciò che colpisce è la architettura in sé. E’ un inno al cattivo gusto che offende non solo la città di Milano (già di per sé deturpata e violata da altri nomi illustri dell’architettura contemporanea) ma anche la sensibilità di quanti vorrebbero vedere una bella architettura per un luogo destinato ad accogliere l’arte e la musica. Certamente Vittorio Gregotti è un ottimo architetto, ha curato nei minimi dettagli l’acustica. Su questo non c’è dubbio. Ma perché rinunciare alla bellezza o alle belle forme? Perché rinunciare all’idea di poter armonizzare bellezza e funzionalità? Gli architetti contemporanei diano uno sguardo al passato e prendano esempio da Filippo Brunelleschi, da Leon Battista Alberti o da Donato Bramante. E non si facciano prendere troppo dalla euforia di poter giocare liberamente con le forme e di creare mostri architettonici in vetro, metallo e cemento. Siano più rispettosi dei luoghi. E soprattutto siano più sensibili alla memoria e alla storia della nostra civiltà.



sabato 27 luglio 2013

Dallo stile romanico allo stile gotico. Il gusto estetico del XII secolo

di Michele Lasala



Tra il secolo XI e il secolo XII comincia a svilupparsi e a diffondersi in maniera sempre più fitta in tutta Europa il cosiddetto stile ‘romanico’, stile prevalentemente di carattere architettonico, ma che ritroviamo, seppur in misura assai minore, anche in pittura e in modo assai frequente in scultura.
Le prime occorrenze del termine ‘romanico’, o comunque dell’espressione “arte romanica”, si fanno risalire – come giustamente ricorda Pietro Toesca, uno dei massimi studiosi italiani novecenteschi dell’arte medievale – alla prima metà del secolo XIX (il termine ‘romanico’ fu usato per la prima volta infatti nel 1818 da Charles Duhérissier de Gerville per definire il carattere evidentemente “romanzo” dell’architettura dei secoli X-XII, in opposizione a “germanico” che invece designava l’arte gotica) contemporaneamente e in concomitanza al fiorire e allo svilupparsi degli studi sulla lingua e sulla letteratura romanza. Il termine sta a designare il gusto estetico proprio del Basso Medioevo, gusto caratterizzato in particolar modo dal recupero sistematico di quello che, diciamo così, era il lessico dell’arte romana, dell’arte classica; ma più in particolare è quel gusto caratterizzato dal recupero sempre più deciso e marcato degli elementi architettonici che andavano a caratterizzare le diverse tipologie degli edifici dell’età classica. Il capitello, la colonna, l’arco a tutto sesto, la volta a botte e a crociera sono solo alcuni degli esempi di elementi architettonici classici che ritroviamo effettivamente nella nuova e moderna architettura romanica.  
Il fenomeno del recupero del passato generalmente è tipico di quelle fasi storiche che gli studiosi solitamente amano designare col termine di ‘rinascita’ o con quello di ‘rinascimento’, si pensi proprio a un periodo come il secolo XV, di cui prima si è detto. E proprio durante il XII secolo si assiste a un evidente e dichiarato recupero del passato anche in ambito architettonico..
Saranno le chiese a manifestare prevalentemente tutta la magnificenza di questo nuovo stile artistico, mutuato, per l’appunto, dall’estetica classica, e sarà lo storico francese Raoul Le Chauve (italianizzato come Rodolfo il Glabro), uno dei più importanti cronisti del Medioevo (nonché monaco di Cluny), a descrivere il fenomeno della massiccia attività edilizia che portò l’Europa medievale ad arricchirsi sempre più di chiese, cattedrali e monasteri.
Nelle sue Cronache dell'Anno Mille lo storico francese ci dice che

 «Mentre si avvicinava il terzo anno dopo il Mille, in quasi tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e in Gallia, le chiese furono rinnovate. Benchè la maggior parte di loro, di solida costruzione, non avesse bisogno di essere restaurata, tuttavia i cristiani sembravano rivaleggiare tra loro per edificare chiese che fossero le une più belle delle altre. Era come se il mondo si fosse scosso e, liberandosi dalla sua vecchiaia, si fosse rivestito di un candido manto di chiese. I fedeli, in effetti, non soltanto abbellirono quasi tutte le cattedrali e le chiese dei monasteri dedicate a diversi santi, ma anche le piccole cappelle situate nei villaggi»[1].

Le chiese, stando a quanto scrive il cronista francese, cominciarono a rinnovarsi, modernizzarsi a partire proprio dal terzo anno dopo il Mille, e questo rinnovamento è dovuto proprio al reimpiego di materiali ricavati direttamente dagli edifici antichi, o comunque dalla riproposizione quasi ossessiva di elementi caratterizzanti i modelli architettonici dell’antichità classica.
In prevalenza, il rinnovamento delle chiese si verificò in Gallia e in Italia, e infatti proprio in Francia e in Italia noi abbiamo le più grandi testimonianze di cattedrali, chiese, basiliche e monasteri in stile prevalentemente romanico, otre che in stile gotico; stile, quest’ultimo, che si sviluppa proprio in seno a quello romanico, e che si distaccherà via via da esso, rappresentando sempre più, già nel secolo XIII, una nuova concezione di quella che è l’ars aedificatoria.
Ma anche in Spagna, in Inghilterra, in Germania abbiamo esempi di architettura romanica di altrettanta grande importanza. Un esempio fra tutti è la cattedrale di Santiago di Campostela in Catalogna, edificio iniziato nel 1075.

«Geograficamente, l’arte che si chiama romanica si sviluppa in un arco che va dalla Spagna alla Polonia, comprendendo a sud l’Italia e a nord la Gran Bretagna e i paesi scandinavi. Storicamente, corrisponde all’età feudale e comunale. È anche l’epoca dei grandi contrasti tra Chiesa e Impero: ma la disputa non insiste tanto sull’origine carismatica dell’autorità quanto sulla giustificazione storica del potere, sull’aspirazione all’eredità politica, giuridica e culturale di Roma. Il fondamento storico e la finalità comune spiegano come l’arte romanica, pur conservando una sua unità di fondo, si sviluppi a livelli diversi, ora distinguendo ed ora intrecciando l’elemento aulico e il popolare»[2].

L’affermazione di questa nuova cultura artistica avvenne nell’ambito di un più generale processo di sviluppo che ha riguardato effettivamente tutta l’Europa. Si registrò, infatti, nella società medievale un complesso movimento di espansione subito dopo il periodo delle invasione dei popoli orientali e della anarchia istituzionale con l’avvento dell’impero ottoniano (962).
Questo sviluppo fu di natura prevalentemente economica e demografica e portò conseguentemente a una sempre più marcata ripresa del commercio; ma fu anche uno sviluppo di carattere religioso, per l’affermarsi di una forte spinta riformatrice maturata negli ambienti monastici e volta a riaffermare l’autonomia ecclesiastica rispetto al potere politico.
Tuttavia, a porre le premesse al sorgere dell’arte nuova sarà indubbiamente il fenomeno della rinascita delle città.
Col tramonto dell’Impero d’Oriente e il defluire dell’invasione musulmana, con il primo formarsi di culture nazionali nell’ambito del mondo neo-latino, cominciano a prender forma, invece, i caratteri propri della nuova cultura artistica del gotico. Il fulcro di questa cultura è indubbiamente la Francia, ma ci sono altresì contesti geografici di importanza non trascurabile come quello rappresentato per esempio dall’Italia e dalla Germania.
La nascita dello stile gotico coincide con il progressivo ma lento declino dello stile romanico, declino che va di pari passo con il tramonto del potere monacale monastico. La figura tipica del sedentario monaco di clausura generalmente amanuense (copiava libri a mano) o quella del monaco incline alla amministrazione del monastero, rimase sempre più lontana dalle nuove istanze ed esigenze cittadine e più prossima a correnti prettamente eterodosse come poteva essere il valdismo e le eresie popolari. I monaci quindi cessarono a poco a poco di essere l’unico corpo spirituale che intercedeva per la società, una società nella quale la concezione dell’esistenza ed il pensiero erano profondamente differenti da quelli del mondo romanico.
Il cambiamento  effettivo ebbe inizio verso la fine del XII secolo, quando il sistema feudale cominciò a perdere fondamentalmente  la sua stabilità politica ed economica a causa del fenomeno sempre crescente dell’esodo dalle campagne. In questo mutamento radicale delle condizioni di vita, in questo passaggio inarrestabile dalla campagna alla città e dal baratto alla economia monetaria, la cultura, fino ad allora patrimonio quasi esclusivo del clero e della Chiesa, si andò sempre più laicizzando.
Su questo terreno di evidente cambiamento sociale e culturale si innesta il fenomeno della nascita delle prime forme di università.





[1] Rodolfo il Glabro, Cronache dell'Anno Mille (Storie), a cura di G. Cavallo e G. Orlandi, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori editore, Milano 1990.
[2] G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Rizzoli, Milano 2004. Inoltre per una chiara ed esauriente ricognizione storica e geografica di quello che è stato il fenomeno artistico del romanico con le sue implicazioni sociali, politiche e culturali, si rimanda alla lettura di André Chastel, L’art italien, trad. it. di Anna Banti e Fausta Cataldi Villari, Storia dell’arte italiana (volume I), Laterza, Roma-Bari 2004. 



Troia, duomo, particolare della facciata

sabato 18 maggio 2013


Artemisia Gentileschi. Una vita vissuta tra pittura e passione


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di Michele Lasala
18 maggio 2013 - Il lungo e intenso percorso di riscoperta e riqualificazione della pittura e della personalità di Artemisia Gentileschi comincia nel non troppo lontano 1916, anno in cui Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte italiani del XX secolo, cui si deve anche il merito di aver ridato ossigeno alla figura di Caravaggio attraverso una grandiosa mostra dedicata al pittore lombardo al Palazzo Reale a Milano nel 1951, quando di Michelangelo Merisi si sapeva poco e niente, scrive un articolo (pubblicato sulla rivista L’arte) dal titolo abbastanza indicativo:Gentileschi padre e figlia. In questo breve scritto Longhi ci dice che Artemisia fu: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità […] nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera».
UNA PITTURA VIRILE – In Artemisia dunque, secondo l’acuta osservazione di Longhi, non c’è nulla che rimandi alla pittura “femminile” di una Lavinia Fontana o di una Anguissola; la pittura della Gentileschi, al contrario, è una pittura virile, maschia, priva di leziosità ma carica di dramma e di pathos. Artemisia Gentileschi dipinge effettivamente come un uomo, dipinge come Caravaggio, dipinge come il padre Orazio, come Battistello Caracciolo, come l’olandese Dirik van Baburen. Dipinge avendo come punti di riferimento i grandi nomi del Seicento europeo, per diventare essa stessa un maestro altrettanto grande quanto lo stesso Caravaggio, il pittore che più di tutti ha influito sulla sua pittura. Ed è per questo che Roberto Longhi, dopo aver riconosciuto la grandezza della pittrice romana, eleva il nome di Artemisia alla stessa altezza di quello del padre Orazio, intitolando il suo scritto appunto Gentileschi padre e figlia. Ma è anche vero che, come dice la brava Tiziana Agnati, in una sua monografia dedicata alla pittrice,  questo scritto di Roberto Longhi è il «primo serio tentativo di analizzare la produzione dell’artista nel più vasto contesto del caravaggismo e, soprattutto, di tentare una prima, accurata distinzione delle opere della figlia rispetto a quelle del padre». Dallo scritto del Longhi ad oggi numerosi sono stati gli studi condotti sulla figura di Artemisia. Accanto a questi non mancano biografie romanzate e film che raccontano il percorso artistico ed esistenziale dell’artista, ispirati dalla vita tormentosa e inquieta di una donna che ha combattuto tenacemente per affermare il suo essere e dimostrare il suo indiscutibile talento creativo, in un’epoca, il Seicento, in cui non era concesso a una donna di diventar pittrice.
ARTEMISIA, PITTRICE CARAVAGGESCA – Fino al 1610/15 Artemisia segue le orme del padre, dipingendo, sempre con una certa pacatezza e un certo equilibrio, non solo quadri di soggetto religioso, come la Susanna e i vecchioni (1610), o le diverse Madonne col Bambino, ma anche scene di genere, in cui compaiono molto spesso figure come suonatrici di liuto, scene queste ispirate ai quadri di analogo soggetto dei pittori olandesi del periodo. Ma il 1612 è certamente l’anno della svolta stilistica per la Gentileschi, perché questo è l’anno in cui la pittrice dipinge la prima versione di un quadro come Giuditta che decapita Oloferne, oggi conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli, opera dichiaratamente ispirata ai quadri di Caravaggio. Da questo momento in poi la pittura di Artemisia si fa sempre più drammatica, sempre più cupa, sempre più inquieta. Pittura che segna il lungo periodo caravaggesco della Gentileschi. È questa la stagione in cui Artemisia attraverso la pittura ha modo di parlare di sé, del suo dramma e della sua inquietudine. Il 1612 è infatti anche l’anno in cui si celebra il processo contro il pittore Agostino Tassi per avere stuprato la pittrice. La Giuditta del Capodimonte ha tutta l’aria di essere un’istantanea fotografica di quello che poteva essere il desiderio di Artemisia rispetto al Tassi: tagliare la testa al proprio carnefice. E infatti non è un caso che il volto morente di Oloferne nella sua ultima notte sia proprio quello di Agostino Tassi, e quello di Giuditta ricordi i tratti somatici della stessa Artemisia.
L’ATTIMO FUGGENTE – Nel quadro napoletano la scena della decapitazione avviene in un ambiente indistinto. Una luce proveniente da sinistra illumina l’azione del delitto nel momento più drammatico, nel momento in cui Giuditta ha già operato il primo taglio sulla gola di Oloferne e il sangue del tiranno comincia a sgorgare macchiando le bianche lenzuola del suo letto. Oloferne si dimena ma viene subito bloccato da un’altra donna, la fantesca complice di Giuditta. Il tutto si compie in un attimo, in pochi secondi. Quello che la Gentileschi ha immortalato in questa scena è un momento cruciale, perché è il punto in cui Oloferne non è né vivo né completamente morto, un momento che ricorda la famosa foto di Robert Capa: Il miliziano morente, dove un soldato appena colpito da un proiettile sta per cadere al suolo, ed è tra la vita e la morte.
IL DRAMMA DI LUCREZIA – La potenza drammatica della pittura di Artemisia Gentileschi sta anche in questo: nel cogliere il momento di massimo pathos in una scena. E ciò lo vediamo anche in un altro quadro di stampo caravaggesco: la Lucrezia del 1621, opera conservata a Genova nel palazzo Cattaneo-Adorno. Qui Lucrezia è colta nel momento in cui sta per compiere il suicidio. Il corpo della donna emerge da uno sfondo scuro, buio, ed è illuminato da una forte luce proveniente, anche qui, da sinistra che vuole descrivere non già l’anatomia del corpo della donna, ma il dramma che sta compiendosi. Anche il volto della Lucrezia genovese ricorda il volto di Artemisia, ma la Gentileschi non si è suicidata. Ha preferito la vita nonostante la sua congenita inquietudine, ha preferito dipingere  fino agli ultimi anni della sua esistenza, lasciando al mondo quadri capaci di raccontare nel loro insieme la cronaca della sua stessa vita. Una vita vissuta tra pittura e passione.
LA MOSTRA – Il BLU – Palazzo d’arte e cultura di Pisa ospita la mostra Artemisia. La musa Clio e gli anni napoletani. Dal 23 marzo al 30 giugno. La retrospettiva ripercorre le tappe del periodo napoletano di Artemisia Gentileschi.
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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613), Napoli, Museo di Capodimonte

Articolo pubblicato su www.quotidianolive.com il 13 maggio 2013

venerdì 10 maggio 2013

Karol Wojtyła. Un filosofo poeta alla ricerca dell’intima Sorgente



di Michele Lasala

«Un grande uomo costringe gli altri a spiegarlo», è quello che diceva Hegel, il più grande filosofo idealista dell’Ottocento, ed è quello che allo stesso tempo potremmo dire tranquillamente noi di un uomo come Karol Wojtyła. A otto anni dalla sua morte (2 aprile 2005), mi piacerebbe ricordare e pensare Giovanni Paolo II attraverso la sua speculazione e riflessione filosofica, oltre che teologia. Riflessione che certo sta alla base e a fondamento di tutto il suo pontificato e di tutta la sua personalità. Il concetto di persona, il concetto di atto, il concetto di fede e quello di ragione - concetti che Wojtyła pone al centro di tutto il suo pensiero - non possono che esser visti come chiave squisitamente ermeneutica per poter comprendere pienamente non solo tutta la parabola del pontificato di Giovanni Paolo II, durato ben ventisette anni, ma anche e soprattutto la natura di un uomo che decide giovanissimo (a 22 anni), in una Cracovia devastata e violata dall'occupazione nazista, stuprata e umiliata da una guerra assurda, di lasciare il teatro, la drammaturgia, sua grande passione, e incamminarsi verso una strada del tutto nuova ai suoi occhi: quella del sacerdozio, quella strada che lo avrebbe poi fatto proclamare Vescovo di Roma il giorno 16 ottobre del 1978.

LA LUCE OLTRE I FUMI DELLE BOMBE - Pensare alla Cracovia degli anni Trenta, e all'intera Polonia di quegli anni, è avere di quella città un’immagine in bianco e nero, priva di colori, priva di vitalità; un’immagine capace di evocare gli orrori e la stupidità di una guerra attraverso la descrizione dell’avanzata degli ebrei verso il ghetto di Podgórze, di strade desolate, di corpi trucidati. Guardando quella Cracovia la memoria non può non andare a un quadro di Bernardo Bellotto, uno dei più interessanti pittori vedutisti del Settecento: Le Rovine del Vecchio Kreuzkirche in Dresda, dove i resti di una chiesa, distrutta a seguito di un bombardamento delle truppe prussiane, stanno a testimoniare nella loro nudità la resistenza di un intero popolo alla violenza, al sopruso, alla prepotenza del nemico. Sono i ruderi che parlano la lingua di uno spirito ferito, quello di una nazione. È esattamente quello che si avverte vedendo le immagini della Polonia sfigurata degli anni Trenta, Quaranta. Gli anni dell’occupazione nazista. Gli stessi anni in cui il giovane Karol entra nel seminario clandestino diretto dall’arcivescovo di Cracovia Sapieha, cominciando così il suo lungo percorso pastorale.

FEDE E RAGIONE - Karol Wojtyła subito dopo essere stato ordinato sacerdote (1946) si reca a Roma per proseguire i suoi studi teologici e si iscrive alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino. Qui ha modo di approfondire il pensiero di san Giovanni della Croce. Scriverà la sua tesi di dottorato proprio su questo autore. Ed è in questo periodo che comincia a prender forma e corpo il suo pensiero di stampo prevalentemente neotomista, pensiero che lo accompagnerà sino alla stesura della famosa enciclica del 1998 Fides et Ratio. Fede e ragione, secondo Wojtyła, sono strettamente legate fra loro: l’una presuppone l’altra, e viceversa. Sono le due forme per giungere alla Verità. In questo Wojtyła richiama direttamente la formula agostiniana “credo per capire, e capisco per credere”. La fede non può separarsi dall’uso della ragione, ma essa deve accompagnare l’indagine razionale per darle più luce.

IL MISTERO DELLA PAROLA - Nella stessa enciclica Fides et Ratio Karol Wojtyła afferma infatti che «Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle esperienze più originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della verità rivelata. Per questo li esorto [ai teologi, n.d.r.] a recuperare e a evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o in contraddizione con la parola di Dio». Tra teologia e filosofia deve sussistere un legame intimo, affinchè sia possibile penetrare il mistero della parola di Cristo, la realtà di Dio che trascende la dimensione fattuale ed empirica dell’uomo.

 UNA VITA DEGNA DI ESSERE VISSUTA - «La Chiesa da parte sua non può che apprezzare l’impegno della ragione per il raggiungimento degli obiettivi che rendono l’esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere profondamente verità concernenti l’esistenza dell’uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l’intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono». In questa enciclica Giovanni Paolo II ribadisce l’importanza che la filosofia assume agli occhi della Chiesa, perché l’impegno della ragione, e conseguentemente la ricerca filosofica, rendono la vita dell’uomo degna d’esser vissuta, e allo stesso tempo permettono all’uomo di giungere, pervenire alla conoscenza di sè. Alla verità del suo essere.

COMPRENDERSI COME PERSONA - È proprio attraverso la filosofia, e attraverso la fede, che l’uomo giunge a comprendersi come persona, come qualcosa che va al di là della dimensione più prettamente biologica, a comprendere la sua esisenza come irriducibile alla sola e pura materialità. Comprendere ciò significa, per Karol Wojtyła, trascendersi, superarsi, andare oltre la dimensione “fenomenica” dell’esistenza e giungere così a riconoscersi come persona.

LA POESIA - Sempre nella enciclica Fides et Ratio Giovanni Paolo II scrive infatti che «La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica». L’uomo sarebbe in grado di congiungersi a Cristo, arrivare a guardare il volto di Dio, entrare in comunicazione con l’Assoluto attraverso quella che lo stesso Wojtyła chiama «trascendenza verticale», un tendere verso sé, che è allo stesso tempo un tendere verso il Verbo. Per cogliere il vero senso di questa espressione, e per cogliere il profondo significato filosofico e teologico del pensiero wojtyłiano basterebbe guardare all’intera sua opera poetica. La poesia, in effetti, per Giovanni Paolo II, è un’altra forma per giungere alla Verità; una forma che certo non può rimanere distaccata o separata dalle altre due: fede e ragione. Ed è per questo che mi piacerebbe chiudere con questa poesia, La sorgente, lirica che probabilmente meglio racchiude la speculazione filosofica e teologica di Karol Wojtyła.

Seno di bosco discende
Al ritmo di montuose fiumare.
Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente.
Penetra, cerca, non cedere,
tu lo sai, dovrebbe essere qui, da qualche parte
Sorgente, dove sei?
Dove sei, sorgente?
Un silenzio.
Torrente di bosco, torrente,
svelami il mistero della tua origine!
(Un silenzio, perché taci?
Hai sottratto alla vista scrupolosamente
Il mistero della tua scaturigine.)
Consentimi di aspergere le labbra
d'acqua della sorgente, di percepire la freschezza,
freschezza vivificante.

(articolo pubblicato su www.quotidianolive.com il 9 aprile 2013)

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Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà Decrease Font Size Increase Font Size Text Size Stam...